C’è Glastonbury, c’è Coachella e poi c’è il Burning Man, dieci giorni fuori dal tempo e dallo spazio del mondo reale, un “network of dreamers” come recita il claim per l’edizione del 2017 (dal 27 agosto al 4 settembre).
Siamo nel deserto del Nevada, tra lo Utah e la California, un luogo inospitale che si trasforma in una città, Black Rock City, che verrà poi smontata pezzo a pezzo dai suoi stessi costruttori. Questo incredibile festival non è semplicemente classificabile come un appuntamento per gli amanti della musica, ma è un evento a tutto tondo. Enormi scenografie colorate illuminano le buie notti desertiche, con il tuo biglietto (dal costo medio di € 350) puoi assistere a spettacoli di illusionismo, workshop, mostre di opere d’arte spesso realizzate sul posto. Sostanzialmente si può fare tutto e il contrario di tutto, basta che non ci siano scambi di denaro.
È come tornare bambini, anzi, come tornare negli anni ’70, all’epoca dell’utopia dell’espressione diretta di sé, senza mediazioni, senza inibizioni, d’altronde “radical self-expression” è uno dei valori dell’organizzazione insieme a “partecipation” e “civic responsibility”. Ciò che attira critiche è forse proprio la parola “radicale” che invece ha conquistato la scrittrice Amélie Nothomb, la quale ha usato il festival come ambientazione per un suo libro .
Lo spirito hippy e anarchico del festival raggiunge il culmine quando tutti i partecipanti appiccano il fuoco ad un uomo di legno alto quasi due metri, proprio come fecero Larry Harvey e il suo amico Jerry James il giorno del solstizio d’estate del 1986, su una spiaggia di San Francisco. Una piccola folla di curiosi si radunò dando vita a una festa spontanea. E tutto cominciò.