Quando John Kosh, sospeso ad un cestello di una gru, scattò decine di istantanee con la sua Nikon caricata con pellicola Ektachrome High Speed, in molti si chiesero chi fosse quel fotografo – evidentemente strafatto – che appeso a venti metri d’altezza fotografava la facciata del Beverly Hills hotel sul Sunset Boulevard.
Kosh aveva già ritratto i quattro Beatles sulla copertina di Abbey Road, quella con Paul MacCartney scalzo che tanto aveva fatto scervellare i fan, ed ora dopo aver girato decine di locations stava realizzando la copertina del quinto e più famoso album degli Eagles: Hotel California. Come avrete già forse capito quello ritratto al tramonto, virato al blu, tagliato a metà in diagonale dalla linea degli alberi e con un’aria decisamente sinistra, non si chiama affatto Hotel California. Per trovare il “vero” Hotel California bisogna spingersi in territorio Mexicano, e precisamente a Todos Santos, Baja California Sur.
Don Felder scrisse la canzone nel millenovecentosettantatre mentre era in vacanza a Malibu. Racconta di aver trovato quel giro di accordi così strano mentre, mollemente adagiato sul divano, gocciolante l’acqua del suo ultimo bagno, giocherellava con la sua dodici corde. La progressione vagamente reggae valse al pezzo la working title di Mexican REGGAE.
LA DOMESTICA.
All’ingresso in studio, due anni più tardi, quella progressione strana in levare era ancora sul nastro della demo che Felder aveva registrato a Malibu sul suo multitraccia. Ma Felder non ne ricordava con precisione la sequenza e fu quindi costretto a chiamare la sua domestica a Malibu, chiederle di mettere il nastro nel mangiacassette incollato al microfono, per ascoltarla insieme al resto della band riunita in studio.
Il maggiore successo degli Eagles ha rischiato di non vedere la luce. Sarebbe bastato che la domestica in questione (che avrebbe meritato almeno una citazione nei credits del disco) fosse stata fuori a fumarsi una sigaretta.
Comunque per quelle strane e miracolose coincidenze che solo il rock sa creare, la band ascoltando rapita il gracchiare del mangianastri di Felder, rimase così colpita dalla melodia che si mise subito al lavoro. Mantenne il titolo di Mexican REGGAE fin quando non fu scritto il testo definitivo. Un capolavoro che vanta ancora oggi decine e decine di interpretazioni diverse, anche se la più accreditata, ed in qualche modo confermata da Henley in una delle sue ultime interviste al Rolling Stones, rimane quella di un inno all’edonismo californiano degli anni settanta: «Stavamo scoprendo un mucchio di cose sulla vita, l’amore, la carriera. Beverly Hills era ancora un luogo mitico per noi. In tal senso, divenne una specie di simbolo e la parola ‘Hotel’ stava per tutto quello che Los Angeles rappresentava.
Se dovessi sintetizzare Hotel California in una frase, direi che era la fine dell’innocenza, atto primo».
Di quella copertina rimane poi negli annali delle leggende del rock, la presenza di Anton LaVey, noto satanista, nella foto interna, affacciato ad una finestra del secondo piano.
In realtà la granulometria della Ektachrome High Speed di Kosh, che tanta parte aveva avuto nel conferire all’immagine della facciata dell’hotel quell’aria così sinistra, poco si presta agli ingrandimenti. Seppur zoomata al massimo l’immagine al secondo piano del patio interno dell’hotel, non ha alcuna somiglianza con i tratti di Anton LaVey. Per questo il Faker si è messo sulle stracce di Kosh per chiedergli lumi sulla famosa immagine.
Non è stato facile convincere lo scontroso fotografo inglese, ma alla fine siamo riusciti a cavargli qualche delucidazione in più: «Se è Anton LaVey quello al primo piano? No affatto. Era uno degli inservienti dell’hotel, che incuriosito dalla folla nell’atrio si è affacciato per guardare. Ho deciso di mantenere quello scatto e di non farne altri perché il sole stava calando e tutta la band ed i figuranti dovevano andarsene. In più la direzione dell’albergo già minacciava di farci causa per gli scatti all’esterno. Di sicuro non mi sarei fermato a scattare oltre il necessario. Credo fosse il cameriere del mio piano. Un messicano se non ricordo male…».
Blister Bangs