IL SABATO VADO A GIOCARE A BERGAMO

Il ventinove ottobre del millenovecentottantanove ricevetti una telefonata, mi stavo preparando per andare a giocare a calcio.

Era la locale stazione dei Carabinieri. Chiamavano perché avrei dovuto presentarmi in caserma per firmare dei documenti. Sapevo benissimo che era una scusa. Avvertii infatti la mia famiglia che non avrei fatto ritorno a casa per cena, anzi dissi loro di preparami una borsa con dei cambi perché di lì a poco mi avrebbero arrestato. È così fu.

Fui condotto nel carcere militare di Boccea viaggiando a bordo di un Alfa in corsia di sorpasso con tanto di manette e lampeggianti. Ero in giacca e cravatta, la dignità e l’eleganza prima di tutto. Il Grande Raccordo Anulare di Roma era stracolmo di auto, i mondiali di calcio di “Italia 90” incombevano e la mia città era un grande cantiere a cielo aperto, con tutti gli annessi e connessi.

Io, tutto sommato mi divertivo, ma stavo andando incontro inesorabilmente al mio prossimo futuro privo della Libertà. E pensare che è sempre stata un’esigenza irrinunciabile, una condizione senza compromessi, un’aspirazione massima, un’idea imprescindibile.

Così arrivai al carcere. Mi condussero dapprima dal capitano poi dal maresciallo che mi fece spogliare e perquisire. Presi tutto con molta calma e serenità, in fondo ero lì per una mia precisa scelta.
Avevo imparato che il vero Cristiano deve manifestare, anche a costo di rimetterci del suo, la qualità massima ovvero la più alta espressione dell’Amore.
L’amore Agape, cioè quel sentimento che ti permette di amare senza un tornaconto, che ti fa scegliere di non imbracciare nessuna arma contro un altro, che ti impedisce di far parte di qualsiasi istituzione che in qualche modo sia pur lontanamente possa essere collegata all’idea di uccidere o far male a chicchessia. Non importa cosa comporti. Nel mio caso e in quello di altri migliaia di ragazzi come me, questa scelta comportò la privazione della Libertà.

Terminati i consueti rituali di “check in”, fui condotto nella mia cella.
Quella sera mi ospitarono quattro simpatici ragazzi che erano lì per alcuni lievi reati commessi durante il loro servizio di forza pubblica, violenze su una prostituta mi confidarono.

Tutto filò liscio, mi bastò raccontare la zona da dove provenivo, dalla quale in effetti ho sempre classisticamente preso le distanze ma quella sera me ne servii sfruttandone biecamente nome e reputazione sociale.

I mezzi giustificarono il fine.

L’indomani, invece, fui condotto nelle celle che ospitavano coloro che come me fecero la scelta di non volere nulla a che fare con l’idea di eserciti, armi e quanto altro.

Dopo un mese, dal carcere militare di Boccea mi trasferirono al carcere militare di Gaeta, in schiavoni ovvero incatenato con antiche manette in dotazione all’Arma dei Carabinieri.
Viaggiammo in un pullman adibito al trasporto di prigionieri che non altro non era che una vera e propria prigione semovente, .

Il carcere era all’interno di un antico castello a picco sul mare che oltre a simpaticissime creature mitologiche, metà topi e metà cani, ospitava spettri, militari e ovviamente circa duecento ragazzini che per scelta personale ubbidendo ad un nobile principio si erano rifiutati di indossare qualsivoglia tipo di uniforme e, per questo, generosamente trattenuti e privati della Liberta.

Conobbi e diventai amico di diversi ragazzi molti dei quali non ho più visto, altri invece li ho rincontrati. Ogni volta che che ciò accade hai ben chiara la percezione che tra di noi esiste qualcosa di unico, qualcosa di speciale, ti unisce la sofferenza, la privazione ma anche l’amicizia e la consapevolezza di aver fatto un’esperienza forte che ha avuto come base un principio nobile ed elevato.

Una scelta che ha prodotto scherni tra le persone che frequentavo e che non condividevano la mia opinione, incredulità e frasi del tipo, “ma chi te lo fa fare? Ma ti conviene? Ma dopo non puoi fare i concorsi pubblici! Ma non era più conveniente fare il militare?” Ecc., ecc…

Però quella scelta ha prodotto anche tantissima ammirazione, molti amici che non appartenevano alla mia ideologia apprezzavano quella decisione e, durante la reclusione, mi tenevano compagnia scrivendomi lettere, inviandomi spartiti musicali, le loro foto, i racconti e le esperienze di vita, quelle lettere le conservo ancora, a memoria. Un giorno mio figlio le leggerà e dovrà farsi un’opinione su suo padre e su questo mondo.

A Gaeta conobbi Domenico.

Domenico era un ragazzo di origini pugliesi ma nato in provincia di Milano. Molto simpatico e generoso, condividevamo, manco a dirlo la passione per il calcio, così, in carcere, passavamo le domeniche ad ascoltare le partite, con commenti da bar dello sport.

M raccontava che amava ed era solito organizzare partite di calcio con relative cene luculliane.

E mi prometta solennemente che appena usciti ne avremmo organizzate diverse e che io sarei dovuto andare a giocare nel suo paese, in provincia di Bergamo.

Era più o meno l’una del sedici aprile del millenocentonovanta ed alcune grida squarciarono la quiete prima del pranzo, mi affacciai e vidi alcuni dei miei compagni di Vita reclusa, gioire come se avesse segnato Ruben Sosa alla Roma.

Scesi per rendermi conto di cosa fosse successo, ma in cuor mio ero certo che stesse accadendo quello che per mesi stavamo aspettando, ovvero l’arrivo del primo fonogramma che avrebbe di lì a poco resi liberi i primi trenta ragazzi grazie ad un provvedimento di amnistia.

È così fu.

Alle quattro del mattino arrivò il mio. Appena venti minuti dopo ero su un treno che mi avrebbe riportato a Casa.
Le sensazioni di quel momento e del mio rientro a casa me le ricordo perfettamente. Una su tutte, il mondo sembrava essersi rimpicciolito.

Quindici giorni dopo mi squillò il telefono, era Domenico ed era sabato. Un’ora dopo avevo in mano il biglietto del treno per un paese vicino Bergamo e la convocazione per la partita del pomeriggio.

Ero libero.

Massimiliano Bosco

Massi

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