IL SILENZIO DI MILES

Il silenzio secondo Miles Davis era suonare “quello che non c’è”, una pausa imprescindibile fra un gruppo di note ma anche uno spazio temporale tra due vite segnate da eccessi, drammi personali, genio assoluto e lucida consapevolezza di essere sempre e comunque un passo avanti agli altri lasciati dietro a copiare o a cercare di capire.
La prima vita termina nel millenovecentosettantacinque, la seconda inizia nel millenovecentoottanta, dopo un periodo oscuro, in cui la narrativa lasciata ai posteri appare sfocata accrescendo la leggenda di un personaggio controverso “principe delle tenebre”. Un periodo di oblio personale e artistico durante il quale droghe, sesso, labirinti ossessivi prendono il posto di una sfrenata passione per la musica che sin da giovane l’aveva posseduto, regalando all’umanita capolavori come il celeberrimo “Kind of Blue”.

Tale silenzio non imposto da qualcuno ma autodeterminato da una volontà forte ed immensamente ingombrante lo spinge alla decisione di non prendere più in mano la tromba “neanche per una volta” in quattro anni. Tale decisione si rivelerà figlia di un disagio umano e di un logoramento mentale dopo anni spesi a cercare qualcosa di nuovo per non deludere un pubblico sempre più esigente ma in particolar modo se stesso. A questo va aggiunto una serie di problemi di salute in particolare dell’anca e un’avversione ormai decennale verso l’industria musicale di cui, come Prince anni dopo, si sente schiavo solo per il fatto di essere nero. In seguito dichiarerà “ le case discografiche spingevano sempre la roba bianca più di quella nera e sapevano che era rubata ai neri”.

Diventa un “eremita” chiuso nella casa sulla settantasettesima a New York spesso per interi mesi a sniffare coca, bere e fare sesso con donne ogni giorno diverse. Tronca a mano a mano i rapporti con tutti gli amici, anche con quelli più intimi come il vecchio compagno Gil Evans e il batterista Al Foster che fino all’ultimo cercheranno di aiutarlo.

Saranno tre le persone capaci di farlo risorgere dalle ceneri di un’esistenza vissuta al limite per un ultimo memorabile sussulto artistico come solo i grandi sono in grado di fare. I primi segni si intravedono già nel millenovecentosettantotto quando Miles accetta di registrare tre pezzi sotto la supervisione di Teo Macero produttore della Columbia con cui in precedenza aveva collaborato durante gli anni del famoso quintetto con Herbie Hancock e nel successivo periodo “elettrico”. La session viene registrata assieme tra gli altri al chitarrista Larry Coryell e l’amico Al Foster.

La session non sarà mai pubblicata. George Butler proveniente dall’etichetta Blue Note nonché codirettore del ramo jazz della Columbia insiste affinché Miles ritorni a suonare; il pressing consiste in diversi incontri amichevoli e serate passate a parlare davanti alla TV. L’insistenza di Butler sulle prime non porta gli esiti sperati ma dopo un anno Miles è pronto a tornare nonostante la perdita di tecnica riguardante in particolare l’imboccatura. Altra figura determinante nel lento processo di recupero è Cecil Tyson vero salvagente nel turbinio psicologico del nostro. Lei, attrice in ascesa negli ottanta, prende il controllo della sua vita inducendolo a smettere di drogarsi e bere allontanandolo da una serie di freguentazioni sbagliate da ambo i sessi. Si libera della cocaina come negli cinquanta aveva fatto con l’eroina in quella sorta di emoluzione parkeriana che aveva coinvolto e fatto morire precocemente diversi giovani musicisti. Lui stesso dichiarerà “All’improvviso iniziai a vederci di nuovo chiaro e fu allora che ricominciai a pensare sul serio alla musica”. Nello stesso periodo il nipote, figlio della sorella Dorothy, Vince Wilbur si trasferisce ad abitare a casa sua a New York; il fatto di essere batterista, giovane e voglioso di imparare dallo zio, che diversi anni prima gli aveva relegato il suo primo strumento, lo stimola a riprendere a suonare, a ritrovare l’energia spirituale e fisica mai del tutto svanita. All’inizio del millenovecentoottanta Miles Davis è pronto, contro ogni pronostico, a ritornare sulle scene.

Registra dodici tracce con gli AL7, band di Chicago del nipote Wilbur, in uno studio a New York di cui fa parte il chitarrista Randy Hall. All’inizio Miles pensa di usare l’intero materiale per la realizzazione di un album ma poi ritorna sui suoi passi ed usa solo due tracce, Shout e il brano che da’ il titolo al primo disco dopo il periodo di silenzio “The Man with the Horn”, cantata da Randy Hall assieme alla seconda voce Angela Bofil. Dopo l’incisione Miles decide di cambiare formazione, sceglie il chitarrista Mike Stern, il batterista nonché amico di vecchia data Al Foster, il sassofonista Bill Evans omonimo del grande pianista e il percussionista Mino Cinelu. Con questo combo registra i memorabili concerti sold out di Boston al Kix, a cui è dedicato un brano dell’album, all’Avery Fisher di New York e a Tokyo in Giappone. La performance sarà immortalata nell’album “We Want Miles” vincitore nel millenovecentoottantadue del Grammy Award. Dopo aver registrato Star People, Decoy e You’re under arrest, dopo trent’anni di collaborazione, Miles decide di lasciare la Columbia per approdare alla Warner Bros. A supervisionare il lavoro del trombettista c’è l’italoamericano Tommy Lipuma produttore di nomi di spicco della scena jazz-pop dell’epoca: Al Jarreau, George Benson e Yellow Jackets. Una produzione laccata e sofisticata che non fa distinzione di razza ma di classe puntando a un pubblico giovane e rampante. Per Miles è l’ennesima opportunità di allargare la sua fetta di ascoltatori e il suo cospicuo conto in banca. Come aveva fatto all’inizio degli anni settanta assorbendo la cultura alternativa rock-funk capisce l’importanza di guardare alle nuove tendenze targate anni ottanta con una certa disinvoltura senza preconcetti non solo relativi alla musica ma anche alla moda; sfogia tute metallizzate e giubbini con tanto di spalline sopra magliate supercolorate di grandi firme della moda. Fiuta i suoni underground della grande Mela, si fa portavoce di un jazz urbano aperto a tutti e non solo accessibile a una classe elitaria composta da critici ingessati e colleghi chiusi in naftalina negli armadi Be bop e Free-jazz. Si interessa al rap, si invaghisce artisticamente di Prince con cui instaura un rapporto di reciproca stima. Si circonda di giovani musicisti non sempre eccelsi ma in grado di esprimere un’energia fresca, a passo con i tempi. Li provoca per spingerli al limite, interrompe i loro assoli durante i live con un cenno della mano, tiraneggia da Boss consumato, si fa amare come un padre. Ma soprattutto snobba la critica sempre poco indulgente con lui. 

Per produrre il suo primo lavoro con la Warner Miles chiama Randy Hall occupato nella registrazione del suo album Love you like a stranger prodotto da Ray Parker Jr. Spiega al musicista la direzione da intraprendere, un crossover di stili diversi, suoni ruvidi, rap, musica latina, caraibica e jazz. La prima session si svolge il diciassette ottobre del millenovecentoottantacinque e include il brano Rubberband con la partecipazione di Mike Stern alla chitarra. L’idea è di coinvolgere anche i cantanti Al Jarreau e Chaka Khan, in quel momento all’apice del successo, per le parti vocali. Nel millenovecentoottantasei l’album è quasi pronto, ma mentre Miles ne è entusiasta il Boss della Warner Bros Lipuma non convinto del risultato, lo bolla come qualcosa di inconsistente che “non dice niente”.

I suoni sporchi e ruvidi del disco non sono adatti alla produzione politically correct di Lipuma così la registrazione finisce nel cassetto. Miles incide assieme al compositore e bassista Marcus Miller il più rassicurante Tutu, che vede una produzione levigata con un uso massiccio di sintetizzatori. L’album viene acclamato da pubblico e critica. L’incontro tra il rap e la tromba con sordina di Miles si concretizzerà nell’album Doo- Bop uscito dopo il suo decesso avvenuto il ventotto settembre del millenovecentonovantuno. L’album viene registrato insieme al dj e rapper Mo Bee e il produttore Gordon Meltzer. Sei dei brani dell’album vengono completati prima del decesso di Miles. Gli altri vengono costruiti da Mo Bee su assoli eseguiti da Miles durante le session di Rubberband. Se è vero che il Be Bop è nato inseguendo la velocità del traffico urbano della cinquantaduesima strada allora il rap, e in seguito l’hip hop, ne sono il suo speculare lascito. Forse alla fine come pensava il batterista Max Roach “il primo Charlie Parker potrebbe saltar fuori dalle melodie e dai ritmi del rap”. Ecco perché ancora oggi la visione avanguardistica di Miles Davis è fortemente attuale e si presenta come fonte di ispirazione per la nuova scena jazz formata da talenti come Robert Glasper, Kamasi Washington, i sudafricani Mabuta, Kaamal Williams solo per citarne alcuni. 
Nella continua evoluzione di quell’insieme di forme di espressioni musicali eterogenee che noi chiamiamo Jazz, Miles Davis è stato un personaggio unico, inarrivabile, capace sempre di anticipare, mai di seguire.

Paolo Marra

Brani estratti dall’autobiografia “Miles Davis con Quincy Troupe”


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